Bill 7 contiene un’importante rilettura del più citato libro sulla pubblicità: “I Persuasori occulti”, di Vance Packard. Scoprendo che forse questo libro così discusso l’hanno letto in pochi. L’autore è Andrea Fontanot. Qui un estratto. Il resto, naturalmente, è su BIll 7.
Non è molto elegante iniziare un articolo con un indovinello, ce ne rendiamo conto, ma date le circostanze non resistiamo: forza, chi è l’autore delle prossime righe?
“La stragrande maggioranza dei pubblicitari, così come dei pubblicisti, dei fundraiser e dei leader politici continua a svolgere un lavoro commendevole e a vederci come cittadini dotati di raziocinio (che lo siamo o no nella realtà). Hanno un ruolo importante e costruttivo nella nostra società. La pubblicità, per esempio, non solo ha un ruolo vitale nel promuovere la crescita economica, ma rappresenta un aspetto colorato e piacevole della vita americana, e molte delle creazioni dei pubblicitari sono onesti lavori pieni di gusto e non senza connotati artistici”.
Forse un Ogilvy o un Reeves in uno strenuo tentativo di difesa della reputazione dei pubblicitari? O un anonimo dirigente della 4As, l’associazione delle agenzie pubblicitarie americane? No, niente di tutto ciò. La risposta esatta è: Vance Packard in persona, nientepopodimeno che nel primo capitolo de I persuasori occulti.
Sorprendente, no? Nel saggio che, dalla sua uscita nel 1957 a oggi, è una delle pietre miliari, se non LA pietra di fondazione, della critica alla pubblicità, e che ha coniato l’etichetta maligna appiccicata così spesso ai pubblicitari, l’autore si preoccupa di chiarire:
1. che la sua opinione della maggioranza dei pubblicitari è piuttosto favorevole;
2. e che, udite udite, il ruolo stesso della pubblicità nella società è ampiamente positivo.
Com’è possibile?
Una prima considerazione, abbastanza ovvia, è che chi, giornalisti, intellettuali, chiunque ancora oggi utilizza l’espressione “Persuasori Occulti” e ragiona sulla pubblicità partendo da questo schema (e succede spesso), lo fa adottando pigramente un meme talmente presente nella nostra cultura da essere ormai diventato una verità accettata e condivisa, e solo in pochissimi casi si sia preso la briga di leggere veramente il libro.
L’approccio “in profondità” terrorizza l’America.
C’è però una seconda considerazione, più interessante a nostro avviso, che parte dalla necessità di contestualizzare e definire con più precisione il senso dell’opera e le intenzioni di Vance Packard: in effetti, il vero bersaglio del veemente attacco che il libro conduce, fin dall’azzeccatissimo titolo (Vance era un giornalista, ma evidentemente anche un ottimo copywriter in fieri), non è la pubblicità di per sè, ma l’utilizzo crescente della tecnica di ricerca detta Motivazionale, colpevole di avere concepito quello che Packard chiama “Depth approach”, l’approccio in profondità alla comunicazione. Vale a dire, il tentativo di utilizzare tecniche psicoanalitiche per persuadere i consumatori sotto il livello di consapevolezza cosciente, per fare in modo che le spinte ai comportamenti che ne conseguono siano spesso, in un certo senso, “nascoste”. I pubblicitari sono tirati in ballo indirettamente, in quanto non resistono (o piuttosto, una minoranza di essi, a sentire Vance) alla tentazione di impiegare la nuova tecnica per migliorare l’efficacia dei loro sforzi. Il terzo capitolo de I Persuasori Occulti, “So Ad Men Become Depth Men”, illustra questa trasformazione, secondo il modello narrativo biblico del demonio tentatore.
Inoltre, poiché i “cattivi” della storia sono i Ricercatori Motivazionali, non manca un capo villain quasi in stile Ian Fleming: il Dr. Ernest Dichter. È lui il vero protagonista del libro: psicoanalista freudiano, sembra tratto da un film da quanto è aderente al cliché americano dello strizzacervelli. Austriaco, fuggito dall’Anschluss nazista appena prima della guerra negli Stati Uniti, porta abiti in tweed ed è ovviamente dotato di occhiali spessi. Nel 1946 fonda l’Institute of Motivational Research, all’avanguardia nelle “nuove” tecniche di ricerca.
Packard cita spesso le “malefatte” del Dr. Dichter, e ne segnala la pericolosità come agente di manipolazione delle coscienze dei consumatori. Tuttavia, uno dei grandi problemi dell’”impianto accusatorio” messo in piedi da Vance è la sua aneddoticità, per giunta quasi sempre anonima. Attraverso le 240 pagine del libro ci si perde nell’abbondanza dei casi portati a supporto della tesi, però introdotti più spesso che no da espressioni come “In una delle più grandi agenzie di pubblicità americane…”, “Un pubblicitario di Milwaukee ha commentato con i propri colleghi…”, oppure “Un’altra azienda produttrice di detergenti…”, per citarne solo alcune. Di questo lo rimprovera bonariamente anche Mark Crispin Miller, studioso dei media e polemista, autore della prefazione all’edizione de I Persuasori Occulti in nostro possesso, quella pubblicata per il cinquantenario dell’uscita, nel 2007, rimanendo peraltro fortemente apologetico sul significato e sulla visionarietà dell’opera, nonché della sua attualità mezzo secolo dopo. Miller, di conseguenza, striglia Vance per non avere approfondito la sua critica alla pubblicità sotto un aspetto più teorico, rendendola così meno radicale e limitandosi quindi a un “allarme riguardo a un fenomeno isolato e anomalo…”, invece di svelarne il vero volto, cioè “l’ultimo capitolo della crescita organica del capitalismo americano… e della storia dell’ingegneria dei consumi…”. Radicalità che il buon Miller, perfetto rappresentante dei molti intellettuali convinti che la pubblicità sia il Male e che trovano una comoda conferma nel mito dei Persuasori Occulti, dimostra di non avere paura di mostrare, dato che poche righe più tardi apostrofa Calkins (un pubblicitario dei primi decenni del ‘900, e fondatore dell’Art Director’s Club, ndr) e i più noti Ogilvy e Reeves come responsabili morali “della tossicità dell’aria e delle acque, dei raccolti senza sapore, del numero crescente dei tumori, dell’epidemia di obesità che affligge i bambini, delle importazioni “avvelenate” dalla Cina e, naturalmente, del riscaldamento globale”. Nientemeno. E alla faccia delle distinzioni che Packard, nello stesso libro che Miller sta prefazionando, si era preoccupato di fare rispetto alla pubblicità. È ora, cari pubblicitari, di presentarsi tutti al Tribunale dell’Aja, arrendiamoci.
(…)
È difficile non provare simpatia per Vance, non riconoscere nella sua storia e anche nella sua prosa sincerità e passione per le tesi portate avanti. In fondo al suo discorso trapela un sapore di nostalgia per una società che sta scomparendo sotto i colpi di un progresso sempre più accelerato, dai connotati quasi pasoliniani. Del resto, non si può certo fargli una colpa per le strumentalizzazioni, dovute a malafede o a pigrizia, che del suo testo sono state fatte in questi decenni. E bisogna pure riconoscergli un certo grado di obiettività: ad esempio, l’altro mito ricorrente originato dal libro è quello della pubblicità subliminale, che Vance riporta solo come notizia che circolava all’epoca, e poi la seppellisce, giustamente, sotto una buona dose di scetticismo, poiché per nulla dimostrata sotto il profilo scientifico. La pubblicità subliminale nacque in realtà a causa di una montatura pubblicitaria (e qui si apprezza la nemesi) di un gestore di un cinema che, per attrarre pubblico alla sua sala, letteralmente s’inventò che nel film erano stati inseriti fotogrammi di bibite fresche, per poi raccontarlo ai media, sostenendo che questo avrebbe convinto gli spettatori a correre al bar. Chi ne straparla è palese non abbia mai letto I Persuasori Occulti. Vero che oggi la pubblicità subliminale non è più uno spauracchio agitato spesso nemmeno dai critici della pubblicità, ma per tanti anni lo è stato. Per esempio in Italia, raggiungendo il massimo grado di paranoia negli anni ’70, dove ha fatto breccia persino nei cartoni animati (vedere “VIP-Mio fratello Superuomo” di Bruno Bozzetto, con il personaggio della “cattiva” Happy Betty, che vuole lanciare missili-messaggi pubblicitari nei cervelli di tutta l’umanità per ridurla alla schiavitù del consumo), tanto che è ancora diffusa a livello di “leggenda metropolitana” nella cultura popolare.
È difficile però non riconoscere anche la superficialità con cui Vance trae conclusioni dalla sua casistica. Oltre al discorso dell’anonimità dei casi, c’è l’altro problema che gli stessi sono costruiti su testimonianze più che su dati (non si trova quasi mai menzione di un risultato di vendita, o di una quota di mercato), fornite in primis dagli stessi Ricercatori Motivazionali, compreso il Dr. Dichter, i quali avevano tutto l’interesse a mettere in ottima luce, se non a esagerare, l’efficacia dei loro metodi, come si può almeno ragionevolmente supporre.
Ma come si spiega allora la fortuna imperitura del mito dei Persuasori Occulti? Il sospetto è che, contrariamente a quanto pensa Mark Crispin Miller, sia proprio la natura un po’ arruffona dell’opera di Packard ad avere creato il fenomeno. C’è da dubitare che una dotta analisi sociologica, per quanto magari più rigorosa e solida nell’impianto teorico, avrebbe titillato in maniera così formidabile paure, ansie e paranoie dei cittadini americani prima e di tutto il mondo poi. Quel mix di si dice che…, nelle stanze segrete delle multinazionali si sta decidendo…, nuove tecniche un po’ esotiche (aggettivo che Vance spende nella primissima riga del libro) ci fanno comprare quello che non desideriamo, eccetera, era ideale per fare emergere l’atavica sensazione che poteri nascosti e da noi incontrollabili agiscano per ridurci a marionette. Ricordiamoci anche che siamo alla fine degli anni ’50 in America, il punto nello spazio-tempo dove cominciano tutte le storie che riguardano la nascita della società dei consumi, la cultura pop, i giovani come realtà sociale a sé stante e come target di consumo, la controcultura, i mass media, e chi più ne ha più ne metta. Gli Americani vivono un periodo di trasformazione velocissima ed epocale, grazie alla tecnologia che dapprima migliora sensibilmente la qualità della vita, ma poi lascia inquietudini sulla spersonalizzazione e sull’uniformità dei comportamenti. Si teme la perdita del valore centrale e costitutivo della società americana: l’individualismo. Il nemico comincia ad affiorare, è “Big Corporate”, che sta cominciando a sfruttare sempre di più quel nuovo modo di comunicare, così affascinante e seduttivo: la televisione. La teoria del complotto, del “corporate drive” al cervello e all’anima dell’America è lì pronta, basta poco per farla venire alla luce. Dubitiamo che Vance fosse consapevole della portata di questa operazione, ci pare più credibile che seguisse il suo istinto, e la sua sensibilità di cittadino “medio” l’abbia portato lì. Comunque, è abbastanza chiaro che fosse genuinamente preoccupato di quello che stava succedendo intorno a lui.
E, attenzione, non è che avesse tutti i torti. La demonizzazione di Packard e del suo libro da parte di tutti quelli che si sono sentiti chiamati in causa, pubblicitari o responsabili di marketing aziendali, (non tanto i ricercatori di mercato, anche perché poco presenti nell’immaginario popolare, e ai quali come accennato forse il discorso faceva anche comodo), è andata ben al di là dei legittimi dubbi metodologici su I Persuasori Occulti. E questo è stato un errore, anche perché ha sempre lasciato pensare a un nervosismo dovuto alla correttezza delle accuse. Vance sbagliava analisi e, alla fine, anche il bersaglio, ma in qualche modo portava l’attenzione su un aspetto fino a quel momento trascurato: il ruolo e l’etica della pubblicità.
Il resto è su Bill 07.
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