Su Bill 13 si parla del confine sempre più sottile tra arte contemporanea e mondo dell’advertising. Qui un estratto dall’intervista che Alessandro Stenco ha realizzato con Jeff Greenspan, uomo dalla clamorose case history. ll resto è su Bill.
Jeff Greenspan, il pubblicitario americano ideatore delle Hipster Traps ci parla del suo percorso, un perpetuo attraversamento dei confini tra pubblicità e arte. Un sentiero che anni fa poteva essere intrapreso soltanto da pochi, coltissimi titolari della propria Sigla come ad esempio Emanuele Pirella e che adesso è invece una delle basi del nuovo “rinascimento creativo”. Coltivare progetti personali paralleli, esplorando varie forme espressive, sembra essere diventato un requisito imprescindibile per entrare in agenzia.
Come sei arrivato dalla pubblicità ai tuoi lavori più artistici?
Il mio primo lavoro in un’agenzia è stato come account e ho subito capito che volevo invece far parte del team creativo. Dopo essere tornato a scuola, alla School of Visual Arts di New York, per crearmi un portfolio da copywriter, ho lavorato in varie agenzie fino a diventare direttore creativo, prima in R/GA, agenzia specializzata nel digitale, poi in BBDO New York. Mettendo insieme le mie competenze su digital e media tradizionali ho iniziato a dedicarmi ai miei lavori personali. E grazie alla combinazione di progetti artistici ed esperienza in pubblicità sono arrivato prima in Facebook, poi a Buzzfeed. In seguito ho deciso di essere freelance, per avere tempo da dedicare anche ai miei progetti. Tra queste due sfere si è innescato un circolo virtuoso: nei lavori personali porto tutto quello che ho imparato dall’adv e in quelli da pubblicitario metto tutta la mia esperienza più artistica. Ed è proprio quest’ultima che mi rende interessante agli occhi di chi mi commissiona campagne.
Quali sono gli insegnamenti dell’adv che riporti nei tuoi progetti personali?
L’advertising insegna a comunicare un’idea in modo molto diretto e visivo per colpire nel segno. Insegna a essere sintetici ed efficaci in pochissimo tempo: 30’’, 15’’, a volte anche solo 3’’. Ho così imparato a usare le parole per catturare l’attenzione sorprendendo, o raccontando, o coinvolgendo. Ho portato tutto questo nei miei progetti. Penso che il motivo per cui piacciono alla gente è che sono divertenti e semplici da comprendere. In più, se un’idea è visivamente chiara, immediata e originale può essere in grado non solo di attirare l’attenzione ma anche di portare a pensare in modo diverso.
La cosa migliore di lavorare nell’industria dell’adv è che ogni giorno, qualunque cosa tu stia vendendo, stai cercando di risolvere un problema in modo creativo. Come un muscolo che cresce andando in palestra, pensare in modo creativo fa sì che il cervello moltiplichi queste connessioni e trovi modi sempre inaspettati di risolvere un problema. Incoraggio sempre i colleghi creativi a dedicarsi ai loro progetti personali e usare questi talenti e competenze per altri scopi.
Cosa invece porti nella pubblicità del tuo lato artistico?
Porto la concretezza del fare. Credo che, almeno in America, nelle agenzie si passi tantissimo tempo a parlare e dibattere. Realizzare questi progetti mi tiene allenato: credo che fare sia un’attitudine. Così quando lavoro come freelance ho l’energia di concretizzare idee. Inoltre, ho avuto la fortuna che i miei lavori personali abbiano attirato molto l’attenzione dei media. Questo mi ha permesso di relazionarmi con questi e imparare a confezionare un’idea per quei media che vogliono condividerla: una competenza importante che porto in pubblicità.
Qual è stato il punto di svolta della tua carriera parallela all’adv?
Nel 2002, quando George W. Bush correva per il secondo mandato, ho realizzato il progetto The Bush Booth. La mia opinione era che Bush fosse un uomo pericoloso, che quella campagna elettorale propinasse un sacco di propaganda, retorica e disinformazione a cui pochissime voci controbattevano. Così insieme a degli amici, ho creato un video, montando ore di spezzoni in loop in cui Bush si limitava ad ascoltare, annuire, senza dire mai niente. Il Bush Booth era una cabina elettorale dentro cui proiettavamo il video, chiunque poteva entrare, trovarsi davanti al candidato e dirgli quello che voleva. L’idea era di mettere la gente nella posizione di far sentire la propria voce, di affrontare il potere e tornare a casa con la sensazione di poterlo fare.
In che modo Bush Booth è diventato popolare?
Inizialmente non sapevo dove installarlo, poi il gestore di un teatro ha pensato fosse divertente e l’ha messo nella sua lobby per due settimane. Qui l’ha visto un gallerista che mi ha contattato e l’ha inserito a sua volta nella sua galleria d’arte. È così che in un’intervista, improvvisamente, sono stato definito “artista”. Poi il lavoro è stato incluso in una mostra collettiva di Chicago e da una mostra di Amsterdam. A quel punto ho realizzato che ero in connessione con altri artisti e con un pubblico che apprezzava in mio lavoro. Fare un progetto che fa sorridere la gente, la fa sentire bene e ha in sé anche un po’ di messaggio è qualcosa che crea dipendenza.
C’è un fil rouge che collega i tuoi lavori?
Un aspetto che li accomuna è il loro iniziare con un “qualcuno dovrebbe…”: Qualcuno dovrebbe far tacere George Bush… Qualcuno dovrebbe fare questo progetto che il cliente ha rifiutato… Qualcuno dovrebbe mettere un barattolo con delle monete davanti a quella statua: la gente la crederebbe una persona che recita (il video ha generato più di un milione di condivisioni in un tempo brevissimo)… Qualcuno dovrebbe mettere una “Tourist Lane”: una segnaletica orizzontale sui marciapiedi per separare turisti da newyorkesi… Qualcuno dovrebbe realizzare questa idea che parla di una problematica importante… dove quel “qualcuno” divento sempre io. Sono dunque tutti progetti che partono da una sorta di urgenza. Lavorando nel mondo dell’advertising si sviluppano talenti incredibili: parlare chiaramente, comunicare visivamente, focalizzarsi su un messaggio. Sono competenze straordinarie che se combinate con talento artistico permettono di catturare l’attenzione della gente. Incoraggio sempre chi lavora in questo campo a realizzare l’idea che il cliente ha bocciato: l’importante è continuare a fare, non fermarsi alle idee, potere influenzare gli altri.
Quando parli di influenzare intendi che quando dai vita a queste idee hai sempre un messaggio?
A volte sì, senza volere sembrare più intelligente di quello che sono. Per esempio, Hipster Traps – trappole da caccia con dentro, come esca, oggetti iconici della cultura hipster – era un progetto nato in forma comica, come uno scherzo, che in seguito ha generato però anche molte discussioni impegnate sulla gentrificazione nelle zone di New York dove si stavano trasferendo gli hipster. Lo stesso per Tourist Lanes, che ha fatto parlare molto dell’impatto del turismo sulla città. Restavano comunque due idee coinvolgenti e sorprendenti che potevano anche essere fruite in modo solo ludico da chi non voleva pensare troppo. Più che volere influenzare, il mio intento è di essere onesto con humour. Il mio prossimo progetto, invece, ha un messaggio forte che ho particolarmente a cuore: fare sapere alla gente cosa sta facendo il Governo.
Ci puoi raccontare meglio questo progetto?
Insieme al mio partner creativo Andrew Tider vogliamo richiamare l’attenzione su alcuni temi caldi senza l’approccio di chi vuole mettersi in cattedra. Attraverso modalità comiche e sorprendenti, l’intento è di arrivare alle persone facendo abbassare loro la guardia e portandoli a pensare in un modo nuovo. Come nelle antiche corti il giullare era colui che poteva dire la verità, così noi travestiremo temi importanti con un cappello buffo e una faccia divertente in modo che la gente possa affrontarli senza esserne spaventata. Il primo di questi progetti uscirà a fine maggio, inizialmente in modo anonimo, perché preferiamo che l’attenzione sia tutta concentrata sul messaggio invece che sull’enunciatore. Pensiamo che negli Stati Uniti ci siano troppe persone non consapevoli a sufficienza di come è strutturato il Governo e di quali sono le sue azioni, della disparità di trattamento da parte della giustizia per i diversi segmenti di popolazione, di cosa succede nelle carceri… anche per colpa dei media mainstream che non rendono queste informazioni semplici e accessibili.
Il resto è su Bill 13.
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