Pasquale Barbella, maestro della pubblicità italiana, propone su Bill 11 un dolente ritratto di Enzo Baldoni. Tra copywriting, email e interviste via fax.
Scambio di e-mail.
2 agosto 2004, ore 01:11. «Buon viaggio. Vedi di non cacciarti nei guai, ti voglio bene. pab»
2 agosto 2004, ore 20:55. «Grazie, pab. Non hai idea di quanto abbia apprezzato le tue parole. E.»
Con il brio che gli era proprio e la complicità di Maurizio Dal Borgo, suo art director per non so quanti anni, si presentava come Balena, alludendo a una dote che aveva in comune col socio: la ragguardevole statura fisica. Col senno di poi è fin troppo facile evocare, in virtù di quel soprannome, la creatura alla quale Achab dà una caccia spietata, andandole incontro come si va verso un buco nero. Ci vorrebbe un altro Melville per raccontare una storia simmetrica, dalla parte del cetaceo: che fra i due avversari è di gran lunga il meno tenebroso. A me, comunque, si addice poco il ruolo di Ismaele: come testimone sono ormai inattendibile, per difetto di memoria ed eccesso di distrazione.
Ricordo ben poco, per esempio, di quella volta che Enzo Baldoni venne da Milano a stanarmi in Brianza. Credo che fosse la fine del 1980 o l’inizio dell’anno successivo. Aveva solo sette anni meno di me ma sembrava un adolescente, un liceale di quelli confinati all’ultimo banco a causa dell’altezza soverchiante; e che approfittando di quella posizione indulgono al lancio di aeroplani di carta e ad altri scherzi esilaranti, per tirar su il morale della classe e far arrabbiare il professore di turno. Doveva scrivere qualcosa su di me su una di quelle riviste che parlano di pubblicità ai pubblicitari. Avrebbe potuto inventarsi un ritrattino di routine, senza muovere il culo dalla sedia, o spararmi tre o quattro domande al telefono, come si usa nelle redazioni prive di passione. Invece il telefono lo usò per dirmi che non gli sembrava ragionevole scrivere di qualcuno senza averlo spiato nel suo habitat e senza aver vissuto almeno un’ora alle sue costole.
Parlammo un po’ dei freelance. All’epoca lo eravamo entrambi, ed eravamo in folta compagnia, perché a metà degli anni settanta un’intera legione di creativi aveva deciso spontaneamente di mandare al diavolo le agenzie e darsi alla libera professione. Il resto è blackout: un oscuramento che mi avvilisce e mi procura, chissà perché, un vago senso di colpa. Pagherei per ricordare cosa ci dicemmo, dove eravamo seduti, come eravamo vestiti e che cosa bevemmo. Di certo si cazzeggiò e si rise tutto il tempo, senza che io attribuissi alcun significato speciale al movente della sua visita. Non so se a quell’epoca Enzo si fosse già messo a frequentare luoghi pericolosi. Ma avrei dovuto capirlo che aveva più l’indole del giornalista d’azione che del copywriter.
La mia casa è più vicina al Lambro che all’Eufrate, la strada per arrivarci non è disseminata di mine e io non ho mai fatto nulla per meritare l’attenzione dei reporter. Forse – contrariamente a quanto si è detto e scritto su Enzo – le sue escursioni estive corrispondevano al vero mestiere della sua vita, mentre la pubblicità e i pubblicitari erano lo sfondo delle sue vacanze. Dev’essere stato per questo che, come copywriter, l’ho sottovalutato a lungo. Avevo preso talmente sul serio il mio lavoro da assorbirne anche gli aspetti più lugubri, tanto da diffidare dei colleghi troppo esuberanti e felici. Tale lui mi era apparso fin dal primo incontro. Come datore di lavoro tendevo a privilegiare i timidi, gli appartati, gli introversi; se inquieti o ipocondriaci, ancora meglio. Enzo era di tutt’altra stoffa, lo specchio della salute – fisica e mentale. Sprigionava radiosità. Mentre io, per dirne una, ho sempre trovato inappropriato per un’agenzia chiamarsi Le Balene Colpiscono Ancora, anche se mi vanto di essere provvisto di sufficiente sense of humour.
Non che Enzo non fosse un bravo copywriter. Scriveva bene, vinceva premi, riusciva simpatico a tutti. Ma lo percepivo – e forse non ero il solo – come un turista dell’advertising, uno che ci stava dentro per caso, divertendosi un mondo, come per caso e per spasso si sta in una discoteca. Il ragazzo che ho conosciuto in quella fase non sembrava lo stesso Enzo di vent’anni dopo. Io e altri come me eravamo troppo presi da noi stessi per indagare a fondo nello sguardo degli altri. Lui invece si dichiarava un ficcanaso, ed era così curioso del prossimo da dimenticare di rivelare qualcosa di più su sé stesso. Che guidasse ambulanze della Croce Rossa, traducesse le strisce di Trudeau o affrontasse conflitti storici in lande arroventate l’ho sempre saputo tardi, e da altri.
(…)
Enzo Baldoni era l’ultima persona al mondo alla quale si potesse predire una fine tragica, anche se il 13 agosto 2004, tredici giorni prima di morire, ebbe a scrivere: «Mi piacerebbe che, in caso di morte, diffondeste questo messaggio: “Mettiamola così: nelle prossime 24 ore ho la possibilità abbastanza concreta di crepare. Ovviamente non succederà – ma, se dovesse succedere, sappiate che sono morto felice facendo quello che più mi piace al mondo: viaggiare in paesi che non hanno mai visto un turista prima di me.”»
Dopo di lui tanti altri civili – tra cui giornalisti, fotografi, volontari in missione umanitaria – hanno perso la vita in Iraq, in Afghanistan, in Siria e altrove. Ultimo italiano in ordine di tempo, almeno fino al momento in cui scrivo, il giovane fotoreporter pavese Andrea Rocchelli, ucciso a Sloviansk, in Ucraina. Sono scivolati via i primi dieci anni dalla scomparsa di Enzo – dieci anni segnati più dagli incubi che dalle speranze. Dove sarebbe andato a curiosare, se fosse ancora tra noi? Penso che uno come lui non si sarebbe mai perso le primavere arabe, magari come inviato speciale di questa rivista.
Il resto è su Bill 11.
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