Bill 10 parla della nuova Birmania, paese che sta uscendo dalla dittatura. Il Nobel per la pace Aung San Suu Kyi ha chiesto investimenti alle grandi company mondiali, Coca Cola ha risposto, recitando un ruolo al quale in questi anni ci sta abituando.
Amici, è tempo di pulizie e stiamo svendendo
tutti i nostri silenziosi Ubik elettrici a prezzi
davvero ridicoli. Sì, abbiamo buttato nel cestino
il listino prezzi. E ricordate: ogni Ubik della
nostra partita è stato usato secondo le istruzioni.
Si ha la sensazione che, da un po’ di tempo a questa parte, la strategia di marca globale di Coca-Cola sia passata a una sorta di livello superiore. La campagna birmana di cui si parla in queste pagine non ne è che un esempio. In breve, la storia: la Birmania è uno dei tre (3!) paesi al mondo in cui Coca-Cola non è presente, insieme a Corea del Nord e Cuba (en passant, quest’ultimo è lo stato geograficamente più vicino ad Atlanta dopo il Messico). Dopo decenni di dittatura militare, la Birmania si sta aprendo alla democrazia, e l’icona Aung San Suu Kyi, pur da leader dell’opposizione, lancia inviti alle grandi multinazionali a investire in modo importante nel suo paese. Coca-Cola è tra le prime (insieme a Unilever) a raccogliere l’appello, e torna a operare nello stato asiatico dopo sessant’anni. Fin qui tutto “ordinary business”. Poi però, con la campagna succitata, partendo dal pretesto di un tour celebrativo del mondiale di calcio in Brasile, si sale di livello, appunto. Attraverso lo sguardo di un gruppo di bambini, Coca-Cola si carica sulle spalle il sentimento di una nazione, la memoria delle glorie passate e la sofferenza dei tempi recenti. Si auto-associa, appena arrivata nel Paese, alle grandi speranze, al senso di libertà, a una ritrovata gioia di vivere. Le immagini di festa collettiva finale ricordano in qualche modo la liberazione da parte dei soldati americani alla fine della Seconda guerra mondiale in Europa. Non male, come debutto/ritorno in comunicazione.
Ubik istantaneo ha tutto il fresco aroma del caffè appena tostato. Vostro marito dirà: “Cristo, Sally, credevo che il tuo caffè fosse soltanto così così. Ma adesso, wow!”. Innocuo se usato secondo le istruzioni.
Intanto, in America. Durante l’ultimo Superbowl, Coca-Cola lancia un nuovo commercial. Il concetto è: America is beautiful, ma la gente che ci vive è ancora più bella. Il jingle è cantato in diverse lingue, tante per ogni etnia ospitata negli usa, e raffigurato in scene di gioia e di meravigliata scoperta della bellezza del Paese, sempre con Coca protagonista in qualche maniera. Apre e chiude lo spot un cowboy preso di peso da una Marlboro Country analcolica e no smoking. Come in Birmania vuole rappresentare un futuro dove tutto è possibile, in patria si fa portabandiera di un’integrazione finalmente riuscita, un’attualizzazione del sogno americano, alla faccia della paura della diversità e degli “alieni” immigrati, dei Tea Party e dei neocon, come dire che è ora di voltare pagina, una dozzina d’anni dopo le Twin Towers.
Volevamo darvi una rasatura che nessun altro
aveva mai avuto. Ci siamo detti: è ora che il viso dell’uomo ottenga un po’ d’affetto. Ci siamo detti: con la lama infinita autoavvolgente Ubik al cromo svizzero, a moto perpetuo, i giorni delle barbe
malfatte sono finiti. Quindi provate Ubik. E lasciatevi amare. Attenzione: da usare solo secondo le istruzioni. E con cautela.
Una terza campagna di Coca-Cola ha suscitato recentemente un discreto rumore mediatico, in Europa stavolta. Qualche mese fa è scoppiata una polemica perché nella versione irlandese di uno spot internazionale costruito sull’idea “more reasons to believe” (con hashtag di ordinanza, ovvio) sarebbe stata censurata una scena raffigurante un matrimonio gay. Contestualizziamo un attimo: la campagna si basa su una serie di scenette in cui si contrappone un fatto negativo a uno positivo che numericamente prevale sul primo. Esempio: per ogni carro armato costruito (e si mostra il carro in azione) ci sono 1.000 torte fatte in casa (e si mostra la brava mamma nell’atto di finire la torta). E così via, perché ci sono sempre più “ragioni per credere in un mondo migliore”. Il tutto tenuto insieme dal solito jingle cocacolesco cantato da un coro di ragazzini. La scena del matrimonio gay, presente in diversi paesi ma sparita nella cattolicissima Irlanda, è contrapposta a una scena di violenza di strada, e il testo recita: per ogni manifestazione di odio ci sono 5.000 celebrazioni d’amore.
Alzate le braccia e sentitevi di colpo più ricche di curve! Con il nuovo reggiseno extramorbido Ubik special alzate le braccia e sentitevi di colpo più ricche di curve! Fornisce un sostegno fermo e rilassante al seno per l’intera giornata, se adattato secondo le istruzioni.
Ora, nel fatto che Coca-Cola decida di adattarsi al clima culturale irlandese personalmente non trovo nulla di strano né di particolarmente esecrabile. Coca-Cola assorbe l’ideologia dello spirito del tempo, o meglio tutto ciò che in questo spirito è positività e apertura. E lo fa da almeno quarant’anni, cioè a partire dal celebre spot dei ragazzi provenienti da tutto il mondo che si ritrovano sulla collina (toscana) a cantare “it’s the real thing”. Si guarda bene – e direi anche giustamente dal punto di vista del brand – di andare contro all’ideologia dominante del periodo e dell’ambiente/paese in cui opera. Semmai, con una finta ingenuità (torta contro carro armato? Ma dài…), tenta di proporre teoriche vie d’uscita, nel nome dei sentimenti buoni e positivi e di un inossidabile ottimismo. Il coro della collina cominciava con queste parole: “vorrei comprare al mondo una casa e arredarla d’amore”. Quindi, cosa dobbiamo desumere dal ritorno di Coca-Cola a messaggi ecumenici e all’insegna del volemose bene, tutti insieme adesso? Che stiamo per entrare finalmente nell’era dell’acquario o comunque ci aspetta un revival di valori peace and love che le ricerche in mano alla multinazionale della Georgia indicano imminente?
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Non crediamo. O, almeno, non del tutto. Nel senso che sì, è molto improbabile che le scelte valoriali su marchio e comunicazione per un’azienda come Coca-Cola non nascano e non siano ampiamente sostenute da ricerche e indagini di scenario. Ma ci sembra che qui ci sia in ballo qualcos’altro. Torniamo alla famosa campagna della collina, che negli anni ha acceso un dibattito tra esperti di marketing e branding. Parte di essi sosteneva che quella campagna fosse del tutto sbagliata, perché rappresentava una deviazione dal valore centrale e fondante del brand, dalla sua equità: il beneficio di refreshment. Quella campagna non vendeva il valore-cardine della marca, contraddicendo tutti manuali classici in materia. Tale tesi è stata evidentemente abbracciata anche dai massimi dirigenti di Atlanta, tanto che per decenni non è stato più riproposto un tale approccio, o quantomeno non in maniera così netta. Un’altra visione invece sosteneva che tale deviazione era necessaria per trasformare Coca-Cola nell’icona immarcescibile che oggi conosciamo. Un’operazione di cultural marketing che l’avrebbe resa in grado di rintuzzare anche una brillante strategia di comunicazione di attacco di Pepsi, con la sua “New Generation”.
Affacciatevi a ogni risveglio con una gustosa, generosa colazione di nutrienti fiocchi d’avena tostati Ubik, il cereale per adulti più croccante, più saporito, più delizioso. Ubik, il cereale per ogni colazione che vi farà vuotare tutta la scodella! Non eccedere le dosi raccomandate per ogni pasto.
Qualunque fazione avesse ragione, negli ultimi anni la preoccupazione circa la celebrazione adeguata del refreshing benefit sembra meno forte. Il New deal nasce nel 2009, quando è stata lanciata la campagna Open Happiness. Più precisa e potenziale di sviluppi rispetto alla precedente, un po’ piattina, Coke Side of Life, rimane come brand claim da allora. Non è probabilmente un caso che nel 2008 si sia insediato come CEO Muhtar Kent, cresciuto in America ma figlio di un diplomatico turco, e che le vendite del decennio precedente non fossero proprio scintillanti. Oggi Coca-Cola sembra intenzionata a far girare alla massima potenza il motore della marca più importante del mondo. Abbandonando via via timidezze, non avendo paura di prendere posizione su temi sociali e in qualche modo schierandosi ideologicamente (certo, come detto, mai “contro” o in maniera rivoluzionaria: si può forse azzardare che l’ideologia attuale Coca-Cola sia quella di un progressismo perbenista e di buonsenso, molto obamiano, guardacaso). Questo, grazie alla portata della marca, va molto al di là di qualsiasi interpretazione di Corporate Social Responsibility, perché Coca-Cola vorrebbe far capire di non aver più bisogno di mediazioni sociali o istituzionali, una sorta di “brand definitivo”, entrando di diritto in qualsiasi tema con il suo punto di vista. Sorseggiando una lattina di Coca mentre scriviamo queste ultime righe, ci resta una domanda: la marca che fallì quando tentò di cambiare se stessa modificando la formula del prodotto (vicenda raccontata nel numero 8 di Bill), è ora pronta per diventare un punto fermo indiscutibile di un mondo in costante mutamento, o che addirittura si propone di indirizzare?
(I corsivi sono tratti da Ubik, romanzo di Philip K. Dick del 1969, la più visionaria opera di fantascienza mai scritta, quindi la più grande.)
Il resto è su Bill 10.
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