Bill 09 si apre con un’intervista esclusiva a Rei Inamoto, direttore creativo superstar di AKQA. A New York c’era per noi Annalisa Merelli. Si è parlato di cultura digital e di un sacco di altre cose. Eccovene un estratto. Il resto è su Bill 09.
Con un passato da calciatore e un presente di collezionista di maglie con le stelle, Rei Inamoto, chief creative officer di AKQA, è una delle figure più influenti nel panorama del nuovo advertising. Bill è andato a trovarlo nel suo ufficio di New York per parlare di tecnologia, incidenti, pubblicità, futuro e stelle.
Una delle cose che (non) si sanno di te è che indossi spesso capi decorati con stelle. Quindi, prima di cominciare: qual è la ragione delle stelle?
Di solito non lo dico. Direi di mantenere il segreto.
L’altra cosa che (non) si sa di te è meno piacevole, e riguarda uno spaventoso incidente all’occhio. Cos’è successo?
È stato un incidente mentre giocavo a calcio, dodici o tredici anni fa. Mi hanno colpito all’occhio e l’impatto ha portato al distaccamento della retina. Ho avuto quattro operazioni in sei mesi, ma la parte peggiore non è stata la lesione, ma il processo di riabilitazione. Dopo ogni intervento bisogna soffiare dell’aria, del gas, nella retina per favorirne l’attaccamento. Ma perché l’effetto sia maggiore devi metterti a faccia in giù in modo che l’aria faccia pressione contro la retina. Quindi dopo ogni intervento sono dovuto stare sdraiato a faccia in giù, per ventiquattr’ore al giorno, tra le due settimane e il mese. Ho pensato che sarei impazzito. È un’esperienza che mi ha fatto apprezzare tutto il resto. Niente era o è mai stato altrettanto faticoso.
In effetti sembra peggio di fare pubblicità. Come hai scelto questa carriera?
Non pensavo che avrei fatto pubblicità quando studiavo, sapevo solo che volevo fare qualcosa di artistico. Al tempo, negli anni novanta, ero particolarmente interessato all’intersezione fra tecnologia e arte. Dopo essermi laureato, ho fatto un apprendistato in Giappone in un piccolo studio con un solo designer. È stata probabilmente l’esperienza professionale più varia che ho avuto: ho fatto di tutto, dal fare il caffé, pulire il bagno, al disegnare copertine per CD e poster. Anche se alcuni lavori venivano usati in marketing e pubblicità, lui non faceva proprio pubblicità.
Credo di essere stato molto fortunato a trovare quel tirocinio perché mi ha aperto gli occhi e fatto capire che la creatività ha diversi modi di esprimersi in un contesto commerciale: se fossi andato in un’agenzia pubblicitaria credo che il mio punto di vista sarebbe stato diverso. È così che ho messo piede nell’industria creativa. Ma anche ora non mi considero uno che fa pubblicità — e se AKQA diventasse la migliore agenzia pubblicitaria, vorrebbe dire che abbiamo fallito.
In che senso?
Cerchiamo sempre di creare per primi. Una domanda importante che ci poniamo in continuazione ad AKQA è “è stato già fatto”? Dobbiamo sempre creare qualcosa di nuovo.
Che ruolo ha la tecnologia in questo processo d’innovazione continua?
Abbiamo un dipartimento che si chiama CRD (Creative Research and Development, Ricerca e Sviluppo Creativi) e credo sia diverso dalla “tecnologia creativa” che è diventata comune nelle agenzie ed è una sorta di “scusa” per sembrare esperti digitali. Credo che molte agenzie usino la tecnologia come un processo produttivo, non un elemento strategico, mentre ad AKQA abbiamo il gruppo di CRD da oltre 15 anni: è un ibrido di creativi ed esperti di tecnologia che crea prototipi in continuazione, perché un concetto vale solo quanto la sua esecuzione, non importa che l’idea sia buona se non sai eseguirla.
La tua formazione è in informatica e arte. Hai fatto questa scelta prima che i computer diventassero una parte fondamentale della società, come mai?
Ho iniziato come studente d’arte e i computer non erano ancora particolarmente comuni come strumento creativo. Mi sono spazientito a dovermi confrontare continuamente con i loro limiti: il mio problema era che dal momento in cui decidevi di usare il computer per disegnare, il tuo prodotto era come già definito dallo strumento. Quindi ho pensato che creare il mio strumento, il mio software, avrebbe aiutato la mia espressione artistica. Così mi sono avvicinato all’informatica.
Se dovessi scegliere solo una delle due discipline, oggi, quale sarebbe?
Non lo so, è difficile. Credo che il problema sia proprio il fatto di dover operare una scelta, che si parli di una separazione tra arte e informatica. Penso sia il motivo per cui, anche allora, non ho scelto.
Ultimamente si parla spesso dell’importanza del saper programmare, e c’è chi ritiene sia un’abilità fondamentale da insegnare alle nuove generazioni. Sei d’accordo?
Non credo, perché si tratta solo di una tecnica, ma non sono un educatore e non conosco il lato delle scienze cognitive. Una delle lezioni più importanti della mia vita non è stata in una classe, e credo lo stesso valga per molte persone. È stato un gesto semplice di mia madre. Avevo circa dieci anni; a quel tempo ero affascinato dalla musica e volevo che i miei genitori mi comprassero un sassofono. Non sapevo suonarlo, credo che fosse più una cosa di tendenza. Mia madre, invece di comprarmi uno strumento, mi ha comprato un libro su come costruire uno strumento. Come a dire: prima impara suonare lo strumento che ti fai tu, poi chiedimi di comprarti un sassofono. Ecco, più che una tecnica credo sia importante insegnare a pensare in un certo modo.
Il resto è su Bill 09.
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