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DA BILL 03: IL COOL È MORTO
Andrea Fontanot

Andrea Fontanot ha scritto per Bill un articolato e documentatissimo saggio sul concetto di “Cool”. Qui trovate un estratto sul cool in pubblicità. Un estratto che è solo la punta dell’iceberg, credeteci.

[Negli anni '50] La critica alla società di massa non è inizialmente abbracciata soltanto dalla fetta della popolazione americana più giovane e progressista, ma anche, e addirittura forse anticipata, dalla stessa Corporate America che pure era l’establishment, e che aveva creato il fenomeno del consumismo e della società di massa ora sotto attacco. Un libro del giornalista Thomas Frank, esperto di società e consumi, The Conquest of Cool, uscito nel 1997, descrive bene questo fenomeno che oggi ci appare sorprendente. E racconta come a guidarlo siano state due industrie: la Pubblicità e la Moda, entrambe in quegli anni sul punto di entrare in una fase “rivoluzionaria”. Se l’advertising vive la sua Creative Revolution, la moda passa per la Peacock Revolution, dove il pavone sta ovviamente per il passaggio dal monotono e conformista abito grigio al colore e alla trasgressione (si parla peraltro di moda maschile, quella che incide sui codici del mondo business e detentore del potere nella società, mentre quella femminile cambia solo qualche anno dopo, con l’arrivo della rivoluzione sessuale e del femminismo).

Qui ci concentriamo, naturalmente, sul ruolo della pubblicità. E così incontriamo in questa storia, nientemeno che col ruolo di “leader rivoluzionario”, una figura familiare: Bill Bernbach. Un capitolo di “The Conquest of Cool” addirittura ha per titolo Bill Bernbach vs. the Mass Society, e apre un varco all’idea che forse noi stessi, anche riconoscendo a Bernbach meriti ampiamente discussi in questa rivista, ne sottovalutiamo il ruolo. E forse tendiamo a sottovalutare l’influenza del nostro lavoro sulla società e sull’evoluzione della cultura popolare e di massa (e quando ci proviamo, è per rispondere alle critiche di manipolazione delle masse, spesso con una tendenza perversa all’autodafé).

Come sappiamo, tra i decenni ’50 e ’60, il fenomeno detto Creative Revolution cambia profondamente il mondo della pubblicità. Noi qui non ci soffermiamo sulle campagne, ma sulla trasformazione della figura del pubblicitario e delle agenzie come modo di intendere il business. Trasformazione che anticipa quella più ampia del mondo corporate in generale, e persino quelle nell’industria musicale e i movimenti giovanili. Oggi sembra strano, ma fino ad anni ’50 inoltrati l’advertising era un mondo in cui parole come creatività e talento erano visti di cattivo occhio, e in cui la teoria dominante sosteneva che la pubblicità fosse una scienza, non un’arte, di cui si padroneggiavano tecnica e funzionamento, grazie a regole perfettamente codificate in ogni dettaglio, e a ricerche di mercato che si volevano sempre più sofisticate (e che, anche giustamente, attiravano l’etichetta di “Persuasori occulti” da parte di Vance Packard). A livello organizzativo, le agenzie erano il trionfo della rigidità e dell’efficienza, in ossequio alle coeve teorie di management. Anche il look era totalmente difforme dalle agenzie come le conosciamo: “The man in a grey flannel suit”, espressione entrata nel linguaggio americano per definire il più anonimo e sottomesso degli impiegati, non era che il titolo di un romanzo dell’epoca il cui protagonista era, guarda caso, un pubblicitario pusillanime e conformato ai desideri dei clienti e dei capi. Interessante notare come “Mad Men” catturi Madison Avenue proprio nel passaggio tra le due ere: l’agenzia fittizia della serie televisiva, la Sterling Cooper, lavora con il vecchio business model e il vecchio look, ma sono ormai visibili tutti gli stimoli del mondo che sta cambiando. Insomma, la Madison Avenue alla fine degli anni Cinquanta era un ambiente totalmente conformista, per nulla creativo, e al servizio indiscusso del consumismo rampante della società di massa. Square, per niente hip.

Bernbach, insieme a qualche altro pioniere, propose un modello diametralmente opposto, basato sulla creatività e sul precetto che la pubblicità non funzionava affatto come una scienza ma era più simile a un’arte, il cui scopo primario era rendere uniche le campagne sviluppate, in barba alle regole che le rendevano invece una uguale all’altra. Se oggi le campagne Volkswagen sono le più ricordate e iconiche tra le tante di Bernbach è anche perché nel mercato automobilistico la rivoluzione era più evidente che altrove. Prima di tutto, è il mercato in cui i sintomi del consumismo esasperato sono più evidenti: auto sempre più simili le une alle altre, sempre più grandi, tutte con accessori “barocchi” come le code pinnate, modelli nuovi ogni anno che rendono obsoleti i precedenti dopo pochi mesi (“l’obsolescenza pianificata” era uno dei trucchi consumistici più discussi dell’epoca, interessante notare che ai giorni nostri l’industria dell’Information Technology riesca invece a camparci alla grande da più di un decennio senza particolari problemi). Inoltre, le campagne dei Big Three di Detroit (Ford, GM e Chrysler), erano tra quelle più zelanti a mettere in pratica le regole in voga a Madison Avenue: frasi vuote e roboanti, neologismi complicati e senza senso, nuclei familiari numerosi e felici dentro o vicini all’auto, layout tesi a magnificare i singoli dettagli, e ovviamente “All new, all over again” a piè sospinto. Di contrasto, quali erano i temi delle campagne VW? Sempre lo stesso modello negli anni, auto brutta e piccola ma funzionale, senza fronzoli. Sempre raccontati con ironia e linguaggio genuino. Autenticità contro marketing.

Lo stile di Bernbach è più critica culturale (al consumismo) che promozione. Oggi può apparire un paradosso: una critica al consumismo effettuata da un pubblicitario. Ma questo era l’effetto all’epoca: se vuoi essere un individuo, autonomo nelle scelte e non etero diretto dalla società di massa e da Big Corporate, puoi comprare questo prodotto. Quella di Bernbach è, a tutti gli effetti, un’Antipubblicità, rispetto alla pubblicità come si conosceva. Funzionava proprio distanziando il prodotto dal consumismo e creando quindi una nuova estetica del consumo. Tra le mille campagne Volkswagen di quegli anni, è utile da questo punto di vista andarsi a rivedere “1949 Auto Show”, uno spot del 1967 ambientato nell’anno in cui VW viene lanciata negli USA: siamo in una fiera di settore in cui i marchi di Detroit si autocelebrano (alcuni di questi nel frattempo già estinti) mentre lo stand VW è deserto, l’auto spartanamente sola, senza nessun artificio di marketing.

Il resto è su Bill 03.

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