Dopo Zuccotti Park abbiamo chiesto a Reed Young di documentare il “caos visivo” descritto da Annalisa Merelli nel suo articolo. Il risultato è spettacolare. Come al solito, insomma. Da Bill 02.
Messaggi, cartelli, insegne luminose, poster incollati sopra poster incollati sopra scritte dipinte a mano sul muro. Frasi in hindi e inglese improbabile su insegne sgargianti promuovono “business” da enormi a minuscoli: elettricisti, carpentieri, sarti, oro e pietre preziose, import-export d’ogni meraviglia, spezie, delizie fritte piccantissime. Pessime fotografie ritraggono improbabili candidati dai folti baffi e dalle grasse dita inanellate: nella retorica della più grande democrazia del mondo c’è sempre un’elezione dietro l’angolo, un comitato di quartiere in cui essere investiti di un potere qualunque.
Pubblicità, pubblicità dappertutto: segnale per antonomasia delle economie in esplosione è il proliferare dei messaggi, di inviti a vedere, provare, scegliere, comprare. La cacofonia della comunicazione scritta non si limita al commercio: esiste un amore per la parola scritta che va dagli adesivi “I luv u” sul retro delle macchine alle magliette che dichiarano – audaci – “bad boy”, dagli zerbini che salutano “Wel Come” al tre ruote che minaccia in calligrafia rossa e peccando d’ortografia “I’ll bowl you off”.
“In India la parola scritta funziona come un sostituto della parola detta” spiega Santosh Desai, una delle voci più autorevoli dell’analisi socio-culturale del subcontinente. “Siccome c’è molta gente, in India le persone non parlano una alla volta ma una sull’altra e di conseguenza c’è una certa cacofonia”. Il resto dell’articolo – e delle foto – su Bill 02.
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