Nel 2013 ha compiuto quarant’anni il famoso articolo che Pasolini dedicò alla campagna Jeans Jesus “Non avrai altro jeans all’infuori di me”. Bill 08 lo rilegge scoprendo che forse alcuni aspetti erano stati, come dire, trascurati. Se ne parla con Marco Belpoliti, critico letterario e “visivo”. Qui un estratto dalla conversazione. Il resto è su Bill 08.
(…) Pasolini vede negli slogan in genere un’espressività mostruosa perché non prevedono interpretazione, proprio come la propaganda. Poi però arriva un colpo di scena analitico. Scrive: “Non avrai altro jeans all’infuori di me”, si pone come un fatto nuovo, una eccezione nel canone fisso dello slogan, rivelandone una possibilità espressiva imprevista, e indicandone una evoluzione diversa da quella che la convenzionalità – subito adottata dai disperati che vogliono sentire il futuro come morte – faceva troppo ragionevolmente prevedere. (…) l’interesse di questo slogan non è solo negativo, non rappresenta solo il modo nuovo in cui la chiesa viene ridimensionata brutalmente a ciò che essa realmente ormai rappresenta: c’è in esso un interesse anche positivo, cioè la possibilità imprevista di ideologizzare, e quindi rendere espressivo, il linguaggio dello slogan e quindi, presumibilmente, quello dell’intero mondo tecnologico”. Pasolini parla di espressività dello slogan. Parole che vanno poco d’accordo con la visione tradizionale che sia ha di lui, descritto solo come apocalittico.
Pasolini è un po’ l’uomo della contraddizione. Se vai avanti a leggere, dice che lo slogan di questi jeans “non si limita a comunicarne la necessità del consumo, ma si presenta addirittura come la nemesi – sia pur incosciente – che punisce la Chiesa per il suo patto con il diavolo”. Pasolini è molto strano, usa le cose in un modo e poi in un altro… essendo un uomo molto intelligente, vede l’altra faccia della medaglia anche in questo slogan. Non c’è solo un elemento distruttivo.
Che cosa profetizza quando parla di un altro mondo tecnologico da immaginare, di un altro linguaggio delle merci?
È difficile dirlo, perché nell’articolo non c’è altro aggancio. Di sicuro Pasolini sa che, morendo un mondo, ne nasce uno nuovo. Può essere orribile, come ha detto per esempio nell’articolo delle lucciole. Però sa che sta per nascere, e porta con sé anche una positività. Non se la può negare. In tutto il libro c’è qualcosa di sconsolato, c’è una disperazione personale. Essendo tuttavia un uomo così intelligente, acuto, sensibile, capace di intravedere anche cose positive, annuncia anche questa possibilità.
È sicuramente vero che quest’articolo predice la fine della Chiesa e questo è l’obiettivo principale della sua riflessione, ma qua e là sparge altro… su un linguaggio delle merci che non sia non mera propaganda stiamo ragionando qui a Bill. C’è anche un linguaggio pubblicitario ormai fuoriuscito dalle merci e ricollocatosi nella protesta, negli Occupy o nelle Primavere Arabe… insomma, forse ciò che intravedeva era un linguaggio pubblicitario separato dal potere e diventato una libera forma espressiva.
È una lettura possibile. D’altro canto allora la pubblicità non era così onnivora. Era già molto andata avanti, perché è esplosa negli anni sessanta e settanta, però niente in confronto agli anni ottanta e novanta. Diciamo che esistono dei flussi. Se in una certa fase il linguaggio più pervasivo è quello della pubblicità, quando si pone il problema di parlare pubblicamente, il riuso di quel linguaggio è la cosa più naturale. Le cattedrali romaniche di Modena sono state costruite usando necropoli romane. Si usa quello che c’è a disposizione, il che significa che c’è una potenzialità costruttiva all’interno dei linguaggi dominanti. Di Pasolini è stata accentuata la lettura apocalittica, però non c’era solo quello. Diciamo che lui è come una foresta in cui ogni tanto c’è un albero diverso… ce ne sono di scuri, cupi, come quelli delle pagine degli Scritti Corsari, però ogni tanto emerge qualcosa di altro… (…) è vero, le cose successe negli ultimi anni hanno cambiato in modo positivo la percezione della pubblicità nelle nuove generazioni, con una prevalenza per l’aspetto linguistico. Nella campagna Jeans Jesus Pasolini coglie la blasfemia: ogni blasfemia è anche trasgressiva, e lui vi individua anche l’elemento trasgressivo non sessuale ma linguistico, provocatorio, al quale concede la possibilità di produrre qualcosa che di storico, di nuovo… e lo traduce nei termini del linguaggio suo tradizionale, parlando di umanesimo.
“Il futuro che a noi – religiosi e umanisti – appare come fissazione e morte, sarà in un modo nuovo, storia; l’esigenza di pura comunicatività della produzione sarà in qualche modo contraddetta.”
È chiaro che comunque quello della pubblicità è un linguaggio provocatorio, distruttivo delle forme tradizionali. Tutto il contrario della pittura che per secoli ha dominato nelle chiese italiane.
(…)
L’interesse di Pasolini per la pubblicità ci spinge a chiederti se non sia strano che di questo linguaggio così pervasivo ancora oggi ci si occupi in modo occasionale. Come ti spieghi lo scarto tra la sua onnipresenza e la scarsa attenzione critica?
La pubblicità funziona proprio per questa ragione: perché tutti la guardano senza vederla e la vedono senza guardarla, dove nel vedere c’è un elemento di consapevolezza anche più culturale, mentale. Io non lo definirei il linguaggio onnicomprensivo. La pubblicità è l’equivalente del nostro paesaggio. Come esiste il paesaggio naturale, lo skyline delle città ma anche i profili della campagna, nel profilo di quello che noi vediamo c’è la pubblicità, ecco… sono in pochi che si occupano del paesaggio, come pochi si occupano della pubblicità, perché è talmente presente, forte, che…
…che non può essere vista?
Beh, farne oggetto di discorso è da specialisti, come quando Emilio Sereni a metà del Novecento si occupò di studiare il paesaggio italiano. Ci sono gli studiosi del paesaggio, tutti gli altri ci stanno dentro e ne partecipano senza accorgersene. Quindi non è detto che la mancanza del discorso sia assenza di consapevolezza. E’ talmente pervasiva che è entrata nella testa delle persone e lì sta. Adesso io guardo fuori dalla finestra, vedo un cartellone pubblicitario, qui sul tavolo c’è un giornale sul quale c’è ovviamente della pubblicità, ho un biglietto da visita di un ristorante e anche lì c’è un marchio… forse è anche giusto che siano pochi gli studiosi di pubblicità, e che tutti gli altri la guardino e la usino. Ogni tanto affiora: come voi avete notato, tutto il movimento no-global è pervaso di pubblicità cambiata di segno.
Un linguaggio sottratto alle merci e fatto proprio.
Sì, perché giocano sugli slogan, li cambiano, spostano i marchi, prendono dei brand, ricopiano il ’68 e lo rifanno… noi viviamo in una cultura del riuso, perché i materiali che abbiamo a disposizione sono talmente tanti e il magazzino dell’umanità è talmente vasto che uno può entrar dentro e cercare di volta in volta le cose che gli servono. Poi, se riesce a fare un linguaggio dominante con le cose che ha trovato nel magazzino, tanto meglio per lui e si dice che è bravo. Insomma, penso che Pirella fosse un uomo del riuso. Non avrai altro jeans all’infuori di me è la Bibbia. Dopodiché poi vengono altri che possono smontare questo slogan e rimontarlo in un altro modo. E’ tutto un uso di citazioni. La pubblicità è citazioni senza virgolette.
Il resto è su Bill 08.
Tag: Advertising, Belpoliti, Bill 08, Jesus Jeans, Marco, Oliviero, Pasolini, Pierpaolo, pubblicità, Toscani